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mercoledì 20 maggio 2020

PREAVVISO DI FERMO AMMINISTRATIVO: L'IMPUGNATIVA È TESA ALL'ACCERTAMENTI NEGATIVO DEL CREDITO

L’impugnativa del preavviso di fermo, così come del fermo, è azione di accertamento negativo della pretesa creditoria in tal modo avanzata ed è intesa ad ottenere, altresì, l’inibizione alla relativa iscrizione presso il pubblico registro automobilistico. A confermarlo è la Cassazione con sentenza 8 aprile 2020, n. 7756.



Il Giudice di Pace accoglieva la domanda di annullamento della cartella sopra indicata e rigettava la pretesa per le altre sette cartelle, esclusa quella soggetta alla giurisdizione tributaria, rilevando la già intervenuta pronuncia giurisdizionale nello stesso senso.

Avverso questa decisione ricorre per cassazione AR.

In particolare, con il primo motivo, AR prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c., 100324 c.p.c., poiché il Tribunale avrebbe errata mancando di considerare che era stata domandata anche la declaratoria di insussistenza del diritto di procedere esecutivamente sulla base delle cartelle annullate, nonché la declaratoria di nullità del preavviso di fermo di autoveicoli.

La Suprema Corte, in accoglimento del primo motivo di ricorso, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.

In particolare, i Giudici di legittimità hanno osservato che l’impugnativa del preavviso di fermo, così come del fermo, è azione di accertamento negativo della pretesa creditoria in tal modo avanzata.

La suddetta qualificazione della domanda comporta che, verificata al momento della decisione l’insussistenza delle ragioni di credito scrutinate, anche perché in parte negate nella sede giurisdizionale definitiva, era altresì interesse dell’attore ottenere la domanda e conseguente declaratoria di inibizione all’iscrizione del fermo, in cui si traduce la richiesta di annullamento del preavviso.

Tale declaratoria dovrà essere verificata relativamente ai crediti delibati, e non a quelli la cui delibazione è stata ritenuta soggetta ad altra giurisdizione.

L’interesse alla specifica pronuncia in parola sarebbe venuto meno solo in ipotesi di comunicata e verificata elisione del preavviso da parte del riscossore.

Esito del ricorso:

Cassa, con rinvio, la sentenza n. 2235/2016 del Tribunale di Roma, depositata l’1/12/2016.

venerdì 8 maggio 2020

Legittimo il rifiuto al ricezione della dichiarazione di riconoscimento del figlio di coppie omosessuali

Con la sentenza n. 8029 del 22 aprile 2020 la Suprema Corte di Cassazione ha negato ad una coppia omosessuale, composta da due madri unite in unione civile, la possibilità di riconoscere congiuntamente il figlio nato in Italia ma concepito all'estero tramite il ricorso alla procreazione medicalmente assistita eterologa, portata avanti con l’apporto biologico di una sola delle due donne ma con il consenso dell’altra, in quanto in contrasto con le previsioni dell’art. 4 della legge n. 40/2004
PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:
Conformi:Cass. civ., sez. I, 3/ aprile 2020, n. 7668
Difformi:Trib Genova. sez. IV, decr. 8 novembre 2018
La vicenda trae origine dal ricorso di una coppia omosessuale al Tribunale di Pistoia contro il rifiuto opposto dall’ufficiale di Stato Civile al riconoscimento del minore nato in Italia quale figlio di entrambe le donne.
La coppia, composta da due donne unite in unione civile dal 2016, era ricorsa all’estero alla procreazione medicalmente assistita (PMA) di tipo eterologo, senza alcun apporto biologico da parte di una delle due (che aveva solo prestato il proprio consenso alla procedura); al termine della gestazione il bambino era stato poi partorito in Italia dall’altra donna.
Il Tribunale di Pistoia accoglieva la domanda della coppia e disponeva la rettifica dell’atto di nascita, con l’indicazione dei cognomi di entrambe le madri. La pronuncia veniva poi confermata anche dalla Corte d’Appello di Firenze, sulla base di una motivazione basata essenzialmente su un bilanciamento di principi di pari rango costituzionale: da un lato il diritto del concepito ad una genitorialità completa ed al mantenimento dello status filiationis (corrispondente al complessivo esito dell’assunzione di responsabilità da parte di entrambi i genitori e della procreazione assistita di uno di essi), dall’altro lato il diritto della coppia omosessuale legata da un’unione civile a dispiegare in tale unione la propria personalità anche attraverso un progetto di genitorialità condivisa.
La Corte di Cassazione – adita dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura di Pistoia – non ha condiviso l’interpretazione data dalla Corte d’Appello alla legge n. 40/2004 secondo cui il ricorso a tecniche di PMA da parte di coppie dello stesso sesso, in violazione dell’art. 5 della legge stessa comporterebbe esclusivamente l’applicazione della sanzione amministrativa comminata dall’art. 12 comma 2 a carico di chi ne abbia fatto uso, ma non escluderebbe l’operatività dell’art. 8, in virtù del quale il minore nato potrebbe acquistare lo stato di figlio riconosciuto non solo del genitore che lo ha messo al mondo, ma anche di quello che, pur non avendo fornito alcun apporto biologico, sia stato parte integrante del progetto di assunzione della responsabilità genitoriale, per aver prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche.
Nella complessa motivazione della sentenza in commento, la Corte di Cassazione richiama le scelte di fondo del legislatore sottese alla disciplina della PMA con la legge n. 40/2004, consistite nella esclusione del ricorso a tecniche di tipo eterologo (art. 4) e nell’individuazione di precisi requisiti soggettivi ed oggettivi per l’accesso alle altre tecniche (artt. 5-6-10), esaminandone analiticamente il contenuto.
Il primo divieto (il ricorso a tecniche di tipo eterologo previsto dall'art. 4 della legge di cui sopra) originariamente espresso in termini assoluti è stato parzialmente temperato dalle sentenze della Corte Costituzionale nn. 162/2014 e 96/2015, che hanno autorizzato l’accesso a tali procedure anche alle coppie alle quali sia stata diagnostica una patologia causa di sterilità o di infertilità assolute ed irreversibili ed alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili.
Invariati sono rimasti invece i principi stabiliti agli artt. 5-6 e 10 secondo i quali l’accesso alle tecniche di PMA è consentito soltanto alle coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi e consenzienti all’intervento, da effettuarsi esclusivamente presso strutture pubbliche o private a ciò autorizzate.
La Corte di Cassazione riconosce che, per effetto delle citate sentenze della Consulta, essendosi ammesso in casi specifici il ricorso a tecniche di tipo eterologo, sono state introdotte nel nostro ordinamento ipotesi di genitorialità svincolate dal rapporto biologico con il nato, aprendo così la strada alla possibilità – molto dibattuta - di riconoscere il rapporto di filiazione anche nei confronti di coppie che abbiano fatto ricorso a tali tecniche non perché affette da sterilità, infertilità patologiche o malattie genetiche trasmissibili, ma perché fisiologicamente incapaci di generare per l’età avanzata o per difetto di complementarietà biologica (come nel caso delle coppie omosessuali).
Nella sentenza in commento i Giudici nomofilattici proseguono l'esame della giurisprudenza e del quadro normativo sotteso alla soluzione del caso di specie ricordando che la Corte Costituzionale è tornata sul tema con la recente sentenza n. 221/2019 con la quale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzione degli artt. 5 e 12 della legge n. 40/2004 nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l’accesso alle tecniche di PMA, escludendo la possibilità di un ricorso generalizzato a dette tecniche per soddisfare le aspirazioni genitoriali delle coppie omosessuali. La Corte Costituzionale ha precisato che le citate sentenze nn. 162/2014 e 96/2015, pur ammettendo il ricorso a tali tecniche come rimedio alla infertilità, alla sterilità o a malattie genetiche, hanno lasciato inalterato l’impianto generale della legge n. 40/2004, allo scopo di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di un padre e di una madre. Estendere tali tecniche alle coppie omosessuali comporterebbe la sconfessione di tali principi, atteso che l’infertilità fisiologica di una coppia omosessuale non è omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive.
In definitiva per la Corte di Cassazione i limiti imposti dalla legge n. 40/2004 rimangono validi ed attuali e non possono essere superati neppure dalla tutela riconosciuta dal legislatore alle unioni civili con la legge n. 76/2016: il riconoscimento ormai ampiamente diffuso nella coscienza sociale della capacità delle coppie omosessuali di accogliere, crescere ed educare figli, “non implica infatti lo sganciamento della filiazione dal dato biologico”. Tanto ciò è vero che la legge sulle unioni civili n. 76/2016 richiama unicamente la disciplina dell’adozione (art. 1 comma 20), ma non quella della PMA.
Questa posizione non viene ritenuta dalla Corte in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU, la quale ha escluso la possibilità di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla PMA finalità esclusivamente terapeutiche riservando il ricorso a tali tecniche alle coppie eterosessuali sterili, atteso che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali in Europa vi sono diversità di vedute (cfr. Corte EDU, sent. 15/3/2012, Gas e Dubois c. Francia e 3/11/2011, S.H. c. Austria).
La Corte osserva che nel caso in esame non è in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale, nè l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore (sul punto, cfr. Cass. SS.UU., 8/05/2019, 12193).
Sulla base di tale motivazione, la Corte ha accolto i motivi 2 e 3 di ricorso concludendo che “il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con l’art. 4, comma terzo, della legge n. 40 del 2004 e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte della coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forma di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto”.
E’ dunque legittimo il rifiuto opposto dall’Ufficiale di Stato civile alla ricezione della dichiarazione di riconoscimento del minore come figlio naturale delle due donne, trovando tale provvedimento giustificazione nel disposto dell’art. 42 del D.P.R. n. 396 del 2000, che subordina il riconoscimento alla dimostrazione dell’insussistenza di motivi ostativi legalmente previsti, quale nel caso di specie è costituito dalla disciplina legale della PMA.

mercoledì 22 aprile 2020

IL DIRITTO ALLA SALUTE PUBBLICA PREVALE SUL DIRITTO ALLA BIGENITORIALITA'

Il Tribunale di Vasto, con provvedimento inaudita altera parte, ha ritenuto che gli incontri dei minori con genitori dimoranti in un Comune diverso da quello di residenza dei minori stessi, non realizzano affatto le condizioni di sicurezza e prudenza di cui al D.P.C.M. 9/3/2020 ed all’ancor più restrittivo D.P.C.M. 11/3/2020, come pure al D.P.C.M. 21/3/2020 e, da ultimo, al D.P.C.M. del 22/3/2020 (ad oggi si è aggiunto il D.P.C.M. 10 aprile 2020). Conseguentemente, nel bilanciamento degli interessi in gioco, ha ritenuto che quello alla salute pubblica prevalga comunque, sia sul diritto del minore alla bigenitorialità, sia sul diritto/dovere di visita dei genitori separati, soprattutto ove non sia verificabile se il minore venga esposto a rischio sanitario.
Il provvedimento che qui si commenta affronta una problematica attuale, legata alla emergenza sanitaria del COVID-19. In particolare, affronta la delicata questione del rapporto tra diritto di visita e diritto alla salute ex art. 32 Cost., sia nell’interesse generale, sia nell’interesse del minore e dei genitori.
Lo stato emergenziale ha innanzitutto indotto il giudicante a ritenere ammissibile un provvedimento inaudita altera parte.
Considerando la fattispecie giuridica assistita dal fumus boni juris e ritenuto sussistere il pericolo di un pregiudizio imminente ed irreparabile a danno di un minore, infatti, il Tribunale ha pronunciato un provvedimento senza il preventivo intervento dell’altro genitore, sul presupposto che, evidentemente, il principio del contraddittorio sia cedevole rispetto all’urgenza (esigenza) di un provvedimento finalizzato comunque alla migliore salvaguardia dell’interesse del minore.
Il Tribunale, pertanto, valutata la gravità e l’urgenza della vicenda, ha ritenuto opportuno ricomprendere la fattispecie concreta in quella astratta descritta dall’art. 336 c.c., con ciò legittimando una tale forma di pronuncia anche in tema di revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli.
Nel caso di specie, infatti, si discute sostanzialmente su quando e in che modo il diritto/dovere di visita dei genitori possa essere esercitato a fronte della necessità di salvaguardare la salute pubblica e delle limitazioni alla circolazione delle persone, stabilite per le medesime ragioni sanitarie emergenziali.
Fermo restando che da più parti ci si è appellati al buon senso e, quindi, alla necessità che i genitori potessero raggiungere un accordo in merito, onde evitare ulteriori ripercussioni sui propri figli, laddove ciò non sia stato possibile, vari tribunali sono stati chiamati ad esprimersi sulla questione, anche sul presupposto, in parte non condivisibile, che un provvedimento giudiziario di affidamento dei figli non possa essere modificato da un DPCM che imponga un divieto di spostamento. Purtroppo occorre sottolineare che non si registra uniformità di provvedimenti giudiziari su tutto il territorio nazionale, probabilmente anche in conseguenza del susseguirsi di DPCM con limitazioni sempre più stringenti che hanno costretto il giudicante a spostare di volta in volta il baricentro degli interessi in gioco.
I vari DPCM hanno stabilito, infatti, una limitazione dei movimenti sempre più rigorosa su tutto il territorio nazionale, onde contenere il contagio, con conseguente sacrificio di tutti i cittadini.
Non è questa la sede per affrontare la questione della tecnica di normazione utilizzata dal legislatore in questo periodo emergenziale, dove si sono succediti in rapida sequenza, atti aventi forza di legge e provvedimenti legislativi in senso stretto, tali da creare un elevato stress al sistema delle fonti previsto dalla nostra Costituzione, nonché alle clausole di salvaguardia che ciascun articolo della stessa, relativo ai diritti fondamentali, contiene.
Appare necessario, tuttavia, trarre spunto dal citato provvedimento per poter affrontare il tema della recessività di taluni aspetti della genitorialità, rispetto all’emergenza in corso.
Il DPCM in vigore alla data di adozione del provvedimento in esame, aveva sancito il divieto di trasferirsi da un Comune all’altro (sul tema era intervenuta anche un’Ordinanza del Ministro della Salute in pari data), salvo per ragioni comprovate di lavoro, di salute o per ragioni di urgenza, sollevando così il problema come qualificare il diritto/dovere di visita dei genitori separati verso i propri figli.
A tale normazione, non propriamente chiara sul piano sistematico, erano seguiti alcuni chiarimenti attraverso i siti istituzionali governativi.
In particolare, sono state predisposte le c.d. faq (“gli spostamenti… sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio”) che, tuttavia, non sono state sufficienti a sopire il dubbio sul punto.
Il Tribunale di Vasto ha condivisibilmente optato per un decreto fortemente limitativo, in conformità a Corte d’Appello di Bari, 26 marzo 2020, dallo stesso richiamato.
Nel bilanciamento dei diversi diritti coinvolti, diritto alla salute pubblica, diritto alla bigenitorialità del minore e diritto/dovere di visita del genitore, il decreto in commento ha di fatto sospeso il diritto/dovere di visita, nei limiti dell’incontro c.d. “in presenza”, sostanzialmente per tre ragioni, poiché nel caso di specie: 1. il padre è rientrato nella propria residenza da una città ad alto tasso di contagio virale; 2. non è dimostrato che il padre abbia rispettato le prescrizioni imposte dalla normativa vigente, tra cui l’isolamento domiciliare fiduciario e 3. non sarebbe emerso se nell’abitazione di destinazione fossero presenti altre persone oltre all’istante. Non possono non condividersi tali assunti se solo si pensa che tra i doveri rientranti nella responsabilità genitoriale viene annoverato anche e soprattutto quello di tutelare la salute del minore. Purtuttavia, il Tribunale di Vasto ha salvaguardato comunque il diritto all’incontro, seppure virtuale, stabilendo colloqui telefonici riservati in videochiamata con la figlia minore, secondo un calendario puntualmente indicato, e diffidando la madre dal tenere comportamenti che possano limitare o impedire tale diritto.
Certamente, il diritto di visita “in presenza” e strictu sensu inteso è solo sospeso. Ciò non esclude, infatti, che al termine dell’emergenza sanitaria, venga posta fine alla sospensione e tale diritto tornerà certamente a riespandersi, con la possibilità di una sorta di “recupero” del tempo in cui è stato sacrificato seppur nei limiti delle eventuali nuove disposizioni di contenimento tempo per tempo vigenti.

martedì 21 aprile 2020

CORONAVIRUS E DELITTO DI EPIDEMIA

In relazione al Coronavirus, si è di recente appreso dai media che sono in corso di svolgimento indagini riguardanti persone morte in talune residenze sanitarie assistenziali nelle settimane scorse. Fra i reati ipotizzati anche quello di epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.), delitto di evento a forma vincolata.

 L’art. 438 c.p. punisce con l’ergastolo chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni; stessa pena se dal fatto deriva la morte di più persone.
L’epidemia è un delitto contro la salute pubblica ed è collocato nel Titolo VI del Libro II del codice penale, relativo ai delitti contro l’incolumità pubblica: si tratta di fatti che provocano un pericolo (o danno) di tale potenza espansiva o diffusività, da minacciare (o ledere) un numero indeterminato di persone non individuabili preventivamente. Ciò che li distingue dai reati contro la vita e l’integrità individuali è la loro attitudine a proiettare gli effetti lesivi al di là dei concreti individui colpiti o insidiati, mettendo così a repentaglio una cerchia indeterminata di persone. Il legislatore anticipa così la tutela delle persone in modo da salvaguardarle ancor prima che divengano concreto bersaglio delle condotte pericolose penalmente sanzionate (Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, I, Quinta edizione, Zanichelli, 2012, 505).
È la salute pubblica (Trib. Trento, 16/7/2004): il reato è di pericolo comune perché l’epidemia, ancorché danneggi i singoli soggetti colpiti, è fonte di possibili danni ulteriori, sicché minaccia di coinvolgere un numero indeterminato di persone non ancora aggredite (diffusività e incontrollabilità) (Fiandaca-Musco, Diritto penale, cit., 537; Cass. pen. sez. I, n. 48014/2019: “in tema di epidemia, l’evento tipico del reato consiste in una malattia contagiosa che, per la sua spiccata diffusività, si presenta in grado di infettare, nel medesimo tempo e nello stesso luogo, una moltitudine di destinatari, recando con sé, in ragione della capacità di ulteriore espansione e di agevole propagazione, il pericolo di contaminare una porzione ancor più vasta di popolazione”).

In giurisprudenza, circa il delitto di epidemia colposa, si è precisato che non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40 co. 2 c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera (Cass. pen. sez. IV, n. 9133/2018: nella specie, si discuteva di un caso di contaminazione dell’acqua pubblica che aveva determinato un’infezione di gastroenterite nella popolazione; la Corte Suprema ha riqualificato il reato contestato di epidemia colposa in quello di adulterazione colposa di acque destinate all’alimentazione).
Da ultimo, va segnalato che in passato, con motivazione discutibile, si era deciso che “non incorre nel reato di epidemia colposa chiunque, in qualsiasi modo, provochi un’epidemia, come ad esempio chi, sapendosi affetto da male contagioso, si mescoli alla folla pur prevedendo che infetterà altre persone. Infatti, la norma – che per ragioni logiche, anche in vista del criterio storico, dev’essere interpretata restrittivamente – non punisce chiunque cagioni un’epidemia, ma chi la cagioni mediante la diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso, anche in vivo (animali di laboratorio), mentre deve escludersi che una persona, affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che l’affliggono” (Trib. Bolzano, 13/3/1979).

giovedì 16 aprile 2020

Covid-19: gli incontri padre-figli in spazio neutro avvengono via Skype alla presenza di un operatore


Nel bilanciamento degli interessi di pari rango costituzionale, quello alla tutela della bigenitorialità e quello alla tutela della salute, gli incontri in spazio neutro tra il padre ed i figli devono avvenire con modalità che, pur assicurando il costante contatto, non mettano a rischio la salute psico-fisica dei minori, quali, ad esempio, videochiamate (skype ovvero whatsapp), attivate dall’operatore dei Servizi Sociali, il quale assicurerà la propria presenza per l’intera durata della conversazione. Lo stabilisce il Tribunale di Terni, sentenza 30 marzo 2020.
Nel corso di un giudizio di separazione personale era stata disposto, con ordinanza presidenziale, l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre, prevedendo che il padre potesse vederli in spazio neutro, secondo il calendario redatto dai responsabili del Servizio Sociale del Comune.
Tuttavia, i responsabili del Servizio Sociale avevano dato atto dell’impossibilità, a causa dell’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus, di attivare gli incontri in spazio neutro.
Conseguentemente, il Tribunale era stato adito su istanza del padre, che lamentava l’interruzione delle frequentazioni tra il genitore ed i figli.
Con il decreto in rassegna il Tribunale ha preliminarmente dichiarato l’urgenza dell’istanza, ai sensi dell’art. 83, comma 3, lett. a), del D. L. n.18/2020.
Il Tribunale ha, quindi, rilevato che le misure restrittive della circolazione delle persone, con imposizione di misure di distanziamento sociale, adottate con i numerosi provvedimenti governativi emanati per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, impongono di bilanciare l’interesse primario dei figli minori e del genitore a veder garantito il pieno diritto alla bigenitorialità, con l’interesse alla tutela della salute pubblica individuale (dei minori e dei genitori) e collettiva (adottando precauzioni che non aumentino il rischio di contagio). Infatti, gli incontri in spazio neutro, prevedendo la necessaria presenza di operatori e dovendo svolgersi in strutture pubbliche, esposte all’accesso di numerosi utenti, aumentano considerevolmente il rischio di contagio per i minori e per i genitori.
Pertanto, all’esito di un bilanciamento degli interessi di pari rango costituzionale coinvolti nella fattispecie – da un lato, quello alla tutela della bigenitorialità (fondato sull’art. 30 della Cost. e sull’art. 8 Conv. CEDU) e, dall’altro, quello alla tutela della salute (fondato sull’art. 32 della Cost.) - il Tribunale ha disposto, inaudita altera parte, l’attivazione di modalità di frequentazione padre-figli che, pur assicurando il costante contatto, non mettano a rischio la salute psico-fisica dei minori.
In particolare, il Tribunale ritiene necessaria l’individuazione di forme di comunicazione a distanza, che evitino lo spostamento e il contatto diretto delle parti, dei minori e degli stessi operatori (che potranno operare in modalità di lavoro agile o da remoto), quali, ad esempio, videochiamate (skype ovvero con chat whatsapp, ovvero con ogni altra modalità compatibile con le dotazioni nella disponibilità degli operatori e dei genitori), previa idonea preparazione dei figli, attuata con le medesime modalità, assicurando la presenza dell’operatore per l’intera durata della chiamata.
Il provvedimento in rassegna affronta una questione – quella, cioè, delle interferenze tra le misure emergenziali di contrasto al Coronavirus ed il cosiddetto “diritto di visita” del genitore separato o divorziato ai figli minori – sulla quale più volte la giurisprudenza di merito, in queste ultime settimane, è stata chiamata a pronunciarsi, pervenendo a conclusioni non univoche.
Si consideri, al riguardo, che, secondo il Corte d’Appello di Bari, con decreto del 26 marzo 2020, pubblicato su questo Quotidiano , il “diritto - dovere dei genitori e dei figli minori di incontrarsi, nell’attuale momento emergenziale, è recessivo rispetto alle limitazioni alla circolazione delle persone, legalmente stabilite per ragioni sanitarie, a mente dell’art. 16 della Costituzione, ed al diritto alla salute, sancito dall’art. 32 Cost.”.
Ad avviso del Giudice barese è, dunque, ben possibile stabilire un rapporto di gerarchia tra i valori in gioco, collocandosi il cosiddetto “diritto di visita” in una posizione subordinata rispetto alla salute pubblica.
Per una diversa ricostruzione sembra, invece, propendere il Tribunale di Busto Arsizio, che, con decreto del 3 aprile 2020, anch’esso pubblicato su questo Quotidiano , avalla la tesi del ricorrente, secondo cui il cosiddetto “diritto di visita” dei figli di genitori separati e divorziati non avrebbe subìto limitazioni a seguito della normativa emergenziale per fronteggiare il Coronavirus, in quanto certamente rientrante nelle “situazioni di necessità” che legittimano lo spostamento sul territorio.
Il Tribunale di Terni, con il provvedimento che si annota, si pone in una posizione, per così dire, “mediana”, argomentando sulla necessità di individuare un “bilanciamento” tra i beni giuridici coinvolti: da un lato, quello della bigenitorialità (e, si potrebbe, aggiungere quello dell’ “interesse del minore”, che è, per così dire, il “rovescio della medaglia”); dall’altro, la salute pubblica.
Non si ritiene, dunque, di attribuire priorità assoluta all’uno dei beni giuridici in gioco, con sacrificio dell’altro; si tratta, piuttosto, di individuare delle modalità operative attraverso le quali entrambi gli interessi siano efficacemente salvaguardati, pur tenendo conto delle particolarità del caso concreto.
Tali modalità sono individuate nelle video chiamate alla presenza di un operatore del Servizio.
E’ certamente apprezzabile la logica del “bilanciamento” degli interessi che permea la decisione in esame.
La soluzione concretamente adottata, forse, potrebbe non apparire del tutto soddisfacente: l’esercizio del “diritto di visita” attraverso le videochiamate si pone, indubbiamente, come un “minus” rispetto alle modalità ordinarie.
Si sarebbe, ad esempio, potuto pensare a visite “dal vivo”, temporaneamente organizzate, in condizioni di sicurezza, in spazi privati o, comunque, diversi da quelli delle strutture pubbliche messe a disposizione dal Servizio Sociale, alla presenza di familiari o di conoscenti, in luogo degli operatori.
L’urgenza del momento, tuttavia, non ha evidentemente consentito di organizzare le visite secondo forme più prossime a quelle tradizionali.
Non è da escludere, però, che a ciò possa trovarsi rimedio nell’eventualità di un prolungamento delle misure restrittive connesse al protrarsi dell’epidemia.

domenica 29 marzo 2020

CORONAVIRUS: LA TRASGRESSIONE ALLE MISURE DI ANTI-CONTAGIO È ILLECITO AMMINISTRATIVO, NON PIÙ PENALE


Il d.l. 25 marzo 2020, n. 19 (pubblicato sulla G.U. del 25 marzo 2020, n. 79 e in vigore dal 26 marzo) introduce, come emerge dalla rubrica, “Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19”.
Il Governo cerca così di fare ordine e chiarezza, nel rispetto del principio di legalità ex art. 25, comma 2, Cost. e dei corollari che da esso derivano (principi di tassatività, di determinatezza, ecc.), in relazione sia all’individuazione delle misure di contenimento e di contrasto alla diffusione del virus, che, in queste frenetiche settimane, sono state oggetto di numerosi provvedimenti emanati con fonti secondarie, sia - e soprattutto, per quanto qui rileva -, delle sanzioni conseguenti alla trasgressione di quelle misure.
Rispetto al precedente d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla l. marzo 2020, n. 13 (che viene espressamente abrogato, ad eccezione degli artt. 3, comma 6-bis, e 4, che però non riguardano profili sanzionatori), occorre segnalare da subito un’importante novità: il Governo ha abbandonato l’incriminazione ex art. 650 c.p. con riguardo alla trasgressione dei provvedimenti emanati dall’Autorità in favore di un illecito di tipo amministrativo.
Si tratta di una significativa marcia indietro rispetto all’impiego della sanzione penale, che, come si vedrà, ha un ambito applicativo molto circoscritto.
Procedendo con ordine:
  • l’art. 1 individua le “Misure urgenti per evitare la diffusione del COVID-19”. In primo luogo, si pone un limite temporale alle misure di contenimento, che possono essere adottate “per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili anche più volte fino al 31 luglio 2020”, e con possibilità di modularne l'applicazione secondo l'andamento epidemiologico del virus.  Il comma 2 - lett. da a) sino a hh) – contempla, in maniera puntuale e dettagliata, le singole misure di contenimento, alla cui lettura facciamo rinvio; si tratta di un lungo elenco, che si compone di ventinove prescrizioni, le quali riproducono il contenuto di quelle che, sino ad ora, erano state individuate con atti emanati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri o dalle Regioni.
  • L’art. 2 disciplina l’“Attuazione delle misure di contenimento”. A seconda dell’ambito territoriale su cui sono destinate ad incidere (l’intero territorio nazionale o singole regioni), le misure indicate dall’art. 1 possono essere adottate con decreto emesso dal Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentiti il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri ministri competenti per materia, ovvero dai presidenti delle regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero dal Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino l'intero territorio nazionale.Ancora, i decreti in questioni possono essere adottati anche su proposta dei presidenti delle regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero del Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino l'intero territorio nazionale, sentiti il Ministro della salute, il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri ministri competenti per materia.Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e con efficacia limitata fino a tale momento, si prevede inoltre che, in casi di estrema necessità e urgenza per situazioni sopravvenute, le misure possono essere adottate dal Ministro della salute ai sensi dell'art. 32 l. 23 dicembre 1978, n. 833.Vengono fatti espressamente salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanati ai sensi del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, ovvero ai sensi dell'art. 32 l. 23 dicembre 1978, n. 833.

  • L’art. 3 disciplina le “Misure urgenti di carattere regionale o infraregionale”  Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e con efficacia limitata fino a tale momento, si prevede che “le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso”, possano “introdurre misure ulteriormente restrittive, tra quelle di cui all'articolo 1, comma 2, esclusivamente nell'ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l'economia nazionale”. Da segnalare che, per espressa previsione normativa, i Sindaci “non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l'emergenza in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1” (comma 2). La ratio di tali disposizioni è chiara, è va individuata nell’esigenza di indicare misure di contenimento che siano omogenee per tutto il territorio nazionale.

  • L’art. 4 – che maggiormente rileva in questa sede - è rubricato “Sanzioni e controlli”.  Come anticipato, la scelta del Governo è di prevedere un mero illecito amministrativo nel caso di violazione delle misure di contenimento indicate all’art. 2 (salvo un’eccezione, su cui si tornerà oltre), a differenza dell’art. 3, comma 4d.l. n. 6 del 2020, che puniva ai sensi dell’art. 650 c.p. il mancato rispetto delle predette misure, ciò che integra un’abolitio criminis dei fatti pregressi. Il comma 1, “salvo che il fatto costituisca reato”, punisce con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 “il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3”; se il mancato rispetto delle predette misure avviene mediante l'utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzoLa norma, peraltro, precisa che “non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 c.p. o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3”.  Orbene, la volontà del legislatore: è chiara: la violazione delle misure di contenimento, puntualmente indicate dall’art. 1, comma 2, integra un mero illecito amministrativo e non la violazione dell’art. 650 c.p. Si tratta di una scelta opportuna e ragionevole.   L’arsenale delle sanzioni amministrative è articolato e nutrito: la sanzione amministrativa, infatti, è raddoppiata e quella accessoria è applicata nella misura massima nel caso di reiterata violazione della medesima disposizioneCon riferimento, poi, alla violazione delle misure di cui all’art. 1, comma 2, lett. i), m), p), u), v), z) e aa), si applica, in aggiunta, la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell'esercizio o dell'attività da 5 a 30 giorni; in questi casi, all'atto dell'accertamento della violazione, ove necessario per impedire la prosecuzione o la reiterazione della medesima, l'autorità procedente può disporre la chiusura provvisoria dell'attività o dell'esercizio per una durata non superiore a 5 giorni, periodo che viene scomputato dalla corrispondente sanzione accessoria definitivamente irrogata in sede di sua esecuzione. Quanto ai profili applicativi, per espressa previsione normativa, le violazioni amministrative sono accertate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689; si applicano altresì i commi 1, 2 e 2.1 dell'art. 202 d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, che prevedono il pagamento della sanzione in misura ridotta del 30%.
  • Il Prefetto e l’autorità regionale sono gli organi competenti per l’irrogazione delle sanzioni per le violazioni delle misure di cui, rispettivamente, all'art. 2, comma 1, ovvero dell’art. 3; ai relativi procedimenti si applica l'art. 103 d.l.17 marzo 2020, n. 18, che prevede la sospensione dei termini fin al 15 aprile 2020. Una notazione sui fatti pregressi, ossia quelli accertati vigente l’art. 3, comma 4d.l. n. 6 del 2020, che, come anticipato, puniva il mancato rispetto delle misure di contenimento ai sensi dell'articolo 650 c.p. Stante la trasformazione di tale trasgressione in mero illecito amministrativo, si è in presenza di un’ipotesi di abolitio criminis, ai sensi dell’art. 2, comma 2, c.p. I procedimenti penali eventualmente già iscritti, pertanto, non potranno che concludersi con una richiesta di archiviazione, con trasmissione atti all’autorità competente per l’irrogazione della sanzione amministrativa. Infatti, in maniera opportuna il comma 8 dell’art. 4 stabilisce che “le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà”; si dispone altresì l’applicabilità, in quanto compatibili, delle disposizioni degli artt. 101 e 102 d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, che, appunto, nel caso di trasformazione di un fatto da illecito penale a illecito amministrativo, disciplinano, rispettivamente, la revoca della sentenza penale di condanna (eventualità che non pare avrà alcuna applicazione pratica), e la trasmissione degli atti alla competente autorità amministrativa. Come si è anticipato, il Governo ha mantenuto la sanzione penale in un solo caso, correlato alla trasgressione della misura di cui all’art. 1, comma 2, lett. e), che prevede il “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus”.  In tal caso, “salvo che il fatto costituisca violazione dell'articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura è punita ai sensi dell'art. 260 r. d. n. 27 luglio 1934, n. 1265, recante “Testo unico delle leggi sanitarie”, che viene peraltro modificato dal comma 7 dell’art. 4: la pena originariamente prevista (arresto fino a sei mesi e ammenda da 40.000 e 800.000 lire) viene infatti inasprita, essendo ora comminato l'arresto da 3 mesi a 18 mesi e l'ammenda da euro 500 ad euro 5.000. Il rinvio all’art. 260 – che punisce “chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo” - vale non solo quoad poenam, ma anche con riferimento alla configurazione dell’illecito penale, che, essendo modellato come mera contravvenzione, è punibile sia per colpa, sia per dolo. È fatta comunque salva, come detto, l’applicabilità dell’art. 452 c.p. o di più grave reato. Ciò significa che il soggetto in quarantena, positivo al virus, il quale si allontani da casa (salvo evidentemente i casi di forza maggiore o situazioni integranti una causa di giustificazione, quali, ad esempio, lo stato di necessità, la legittima difesa, ecc.) può rendersi responsabile, ricorrendone i presupposti del delitto di epidemia colposa, punito dall’art. 452 c.p. in relazione all’art. 438 c.p., o anche di epidemia dolosa ex art. 438 c.p. Infatti, a nostro avviso, nonostante l’epidemia sia già in atto, il delitto può essere realizzato – in forma dolosa o colposa – da chi, con la propria condotta, propaghi ulteriormente la diffusione del virus.


mercoledì 25 marzo 2020

LA DINAMICA DEL SINISTRO É INCERTA? SI APPLICA LA PRESUNZIONE DI CORRESPONSABILITÀ

Con la sentenza n. 9353 del 2019 la cassazione è intervenuta sul tema dello scontro tra veicoli, ribadendo che la presunzione di eguale concorso di colpa stabilita dall'art. 2054, comma 2 c.c. ha funzione sussidiaria, operando ogni qualvolta le risultanze probatorie non consentano di accertare in modo concreto in quale misura la condotta dei due conducenti abbia cagionato l'evento dannoso e di attribuire le effettive responsabilità del sinistro.
FATTO
P. P., danneggiato in un incidente stradale avvenuto in data 27/8/2015 sulla strada provinciale di Porto Ercole tra la moto da lui guidata ed un presunto (perché rimasto sconosciuto) veicolo bianco che invadendo la corsia di marcia del P. ne aveva determinato la perdita di controllo del mezzo e l'impatto con un guardrail, ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d'Appello di Firenze, che, confermando la pronuncia di prime cure, ha applicato la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro, di cui all'art. 2054, comma 2, c.p.c.

L'applicazione della presunzione di pari responsabilità è stata disposta dalla Corte territoriale, all'esito di ben due perizie cinematiche, nell'impossibilità di addivenire ad una ricostruzione certa dei fatti di causa.

Il Giudice d'Appello, per quel che ancora rileva in questa sede, dato atto che, sulla scorta delle prove testimoniali acquisite, il veicolo antagonista aveva invaso la corsia di marcia del P., provocandone lo sbandamento e l'impatto con un gardrail, in assenza di elementi certi ed inconfutabili sulla dinamica del sinistro, ha ritenuto di applicare l'art. 2054, 2° co. c.c. in ottemperanza alla giurisprudenza, secondo la quale l'accertamento in concreto della responsabilità di uno dei due conducenti, nel caso di scontro tra veicoli, non esonera l'altro dall'onere di provare di essersi conformato alle norme sulla circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza.

Avverso la sentenza il P. propone ricorso per cassazione.

Con l'unico motivo di ricorso il ricorrente solleva violazione e falsa applicazione dell'art. 2054, comma 2, c.c. in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e pone una questione di diritto: se l'art. 2054, comma 2, c.c. sia applicabile anche nel caso in cui vi sia stato, da parte dell'organo giudicante, un accertamento positivo sulla responsabilità di uno dei conducenti coinvolti nel sinistro e non vi sia alcuna certezza circa l'eventuale corresponsabilità del danneggiato.

Secondo il ricorrente, la presunzione di pari responsabilità non potrebbe applicarsi in casi siffatti.

Il motivo non è fondato in ragione della giurisprudenza di legittimità che fa del criterio di imputazione presuntiva della pari responsabilità di cui all'art. 2054, comma 2, c.c. un criterio residuale che si applica in tutti i casi in cui non è possibile stabilire l'esatta misura delle diverse responsabilità nella produzione del sinistro. La ratio dell'art. 2054, comma 2, c.c. è proprio quella di offrire un criterio fittizio di imputazione della responsabilità laddove non sia possibile pervenire ad una esatta ricostruzione dei fatti di causa.

Ciò che emerge con chiarezza nel caso in esame è proprio l'impossibilità di ricostruire con esattezza cosa sia effettivamente avvenuto, tanto che ben due CTU cinematiche non hanno consentito di sciogliere i dubbi.

In questa situazione di assoluta incertezza, il Giudice di merito ha correttamente applicato l'art. 2054, comma 2, c.c., non potendo avere rilevanza, perché afferente al mero campo delle ipotesi, privo di fattuale riscontro, che nell'eziologia dell'incidente sia certamente ravvisabile la responsabilità del conducente di uno dei veicoli coinvolti nel sinistro.

In ogni caso, anche laddove la responsabilità prevalente o esclusiva di uno dei due veicoli coinvolti fosse stata acclarata senza alcun ragionevole dubbio - il che si ripete non è dato affermare nel caso in esame - anche in tal caso il giudice non sarebbe esonerato dall'onere di accertare che il veicolo danneggiato si fosse attenuto al rispetto delle norme del codice della strada ed a quelle di comune prudenza.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di ritenere non superata la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro nel caso in cui sia accertata la colpa di uno dei conducenti

In ogni caso la ratio dell'art. 2054, comma 2, c.c. è proprio quella di fornire un criterio sussidiario in tutti i casi in cui l'accertamento delle condotte non consenta di giungere a conclusioni certe circa l'imputazione della responsabilità del sinistro.